LE
PASQUE VERONESI
(17-25 aprile 1797)
Col nome di Pasque Veronesi, per analogia con i Vespri Siciliani, fu chiamata
l'insurrezione generale della città di Verona e del suo contado, scoppiata il
17 aprile 1797, lunedì dell'Angelo. Tra le innumerevoli insorgenze che dal 1796
al 1814 costellarono l'Italia e l'Europa occupate da Bonaparte
e che esprimevano il rigetto da parte delle popolazioni dei falsi princìpi della rivoluzione
francese, imposti con le baionette, la sollevazione di Verona è certamente la più
importante in Italia, dopo la Crociata della Santa Fede del 1799, con la quale
il Cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria e i contadini del Mezzogiorno
riconquistarono un intero Regno ai Borboni di Napoli.
1 - Verona e la Serenissima prima della Rivoluzione
Dopo aver ucciso il proprio legittimo Sovrano, Luigi XVI, sterminata la sua famiglia e
fatto perire nel carcere della Torre del Tempio il Delfino all'età di dieci
anni, abbattuta la monarchia, perseguitati il culto e la religione cattolica,
la Francia rivoluzionaria, già ubriaca dei massacri del Terrore, si avventura
in una serie di guerre con le altre Potenze europee. Le orde rivoluzionarie,
guidate dalle sette anticlericali più tenebrose, prima fra tutte dalla
massoneria, sono ansiose di esportare in tutto il mondo l'odio
contro la Chiesa e di rovesciare le tradizionali Istituzioni sacrali, sia
civili che religiose, alle quali i popoli erano attaccatissimi.
Gli Stati italiani e la Repubblica aristocratica di Venezia conoscevano
purtroppo allora una triste decadenza morale: gran parte del patriziato, ombra
di quello che aveva affrontato e vinto tante volte il Turco, era infiltrato dai
principi libertari e libertini della Rivoluzione Francese; indifferente alla
religione, imborghesito, disinteressato del bene pubblico, spessissimo
affiliato a logge massoniche, nelle quali si contavano moltissimi
professionisti ed anche sacerdoti e vescovi. Solo il popolo e buona parte del
clero (specie basso) erano rimasti refrattari alle idee illuministe e
secolarizzanti che provenivano d'Oltralpe: la loro commovente fedeltà
all'ordine tradizionale, civile e religioso, ricevuto quale preziosa eredità
dai propri padri e da essi difeso anche a costo della
vita (si contano a centinaia di migliaia gl'insorgenti caduti durante la
parabola napoleonica dal 1796 al 1814) rifulge nelle sollevazioni
controrivoluzionarie che costellarono da un capo all'altro la Penisola e delle
quali i manuali scolastici di storia non fanno parola. Nel sostanziale
tradimento del proprio glorioso passato da parte delle classi dirigenti di
allora sta la spiegazione della dissoluzione della millenaria, gloriosa
Repubblica di Venezia.
Verona, tuttavia, si discosta alquanto da questo quadro poco confortante. La
città, sul finire del secolo XVIII, conta all'incirca 50.000 anime, che raggiungono le 230.000 comprendendovi anche la provincia. Un
moderato benessere economico è diffuso anche nelle classi sociali meno
abbienti, favorito da quasi cinquant'anni
ininterrotti di pace. Il patriziato veronese, proprietario di cospicui fondi
nel contado, migliora le condizioni di vita delle campagne, mentre in città
l'antica e celebre industria della seta è ricercata e produce soprattutto per
l'estero. L'amplissima autonomia amministrativa e giurisdizionale di cui gode
Verona e la irrisoria pressione fiscale non fanno che
accrescere il filiale affetto delle popolazioni verso la Serenissima. La
concordia tra le varie classi sociali e lo spirito religioso,
straordinariamente radicato in tutti i ceti, completano il quadro di una società ordinata e pacifica, naturalmente ostile alle inaudite
idee che dalla Francia giacobina stanno contagiando
anche l'Italia Settentrionale. Anche a Verona,
infatti, la massoneria - principale istigatrice della sovversione - cerca
aderenti, ma gli affiliati sono pochi e presto l'attenta e discreta vigilanza
degli Inquisitori di Stato - forse l'unica magistratura veneziana ancora
efficiente ed all'altezza del suo glorioso passato - ne scopre le trame
tenebrose, smantellando le logge e disperdendone i membri. La pressoché
assoluta partecipazione popolare alle pratiche cattoliche, un clero ancora
immune dall'infezione rivoluzionaria, la presenza di numerosissime
confraternite laiche in tutto il territorio impediscono
l'affermarsi dell'eresia giansenista, i progressisti di allora, fautrice delle
idee sovversive di Francia.
Proprio pochi anni prima delle Pasque Veronesi ricevono la loro formazione
religiosa giganti della fede cattolica quali San Gaspare
Bertoni, futuro fondatore degli Stimmatini,
il Servo di Dio Don Pietro Leonardi, il Beato Carlo Steeb e la marchesa Santa Maddalena di Canossa,
appartenente ad una delle più antiche ed aristocratiche famiglie cittadine, che
fonderà nel secolo a venire l'Ordine delle Figlie della Carità, mentre a
reggere la Cattedra di San Zeno si trova già dal 1790 il patrizio veneziano
ex-gesuita Gianandrea Avogadro,
profondamente anti-giansenista e vivace oppositore della dissolutrice
filosofia sociale illuminista. Insomma, come riferiva alla Dominante il 25
gennaio 1795 il marchese Francesco Agdollo, un agente
segreto inviato a Verona per controllare e relazionare sulla presenza tra le mura scaligere del Conte di Lilla, futuro Luigi XVIII Re
di Francia: "Nessuna notizia da questa città, il buon ordine, una senza
simile popolazione fa apparire essere questa la sede della tranquillità".
2 - L'invasione napoleonica
Nel marzo del 1796, Napoleone Buonaparte, un oscuro ufficiale còrso
(favorito dell'amante di Barras, allora capo del
Direttorio francese) già distintosi qualche mese prima
nel cannoneggiamento della folla parigina, giunge al comando dell'armata
d'Italia, incaricato di aprire un fronte secondario, rispetto a quello del
Reno, contro l'Austria Imperiale.
Le insospettate doti del Bonaparte, la sua
spregiudicata condotta militare (disprezzo della parola data e delle regole
cavalleresche che fino ad allora disciplinavano la guerra, ricorso all'oro pur
di corrompere i generali avversari, saccheggio sistematico dei territori
occupati anche se neutrali, mantenimento e alloggiamento delle truppe a spese
delle popolazioni civili trattate come nemiche, oppressione dei vinti) un
servizio di spionaggio assai più efficiente e remunerato di quello
dell'avversario, l'aiuto potente della massoneria e delle altre sette segrete,
il ricorso agli stupefacenti (la famosa cantaride) per galvanizzare i soldati
di leva, quando il fanatismo dei commissari rivoluzionari incaricati di
sorvegliarli da solo non bastava e tanta fortuna, spiegano i successi mietuti
dall'armata fra il 1796 ed il 1797.
Occupati il Piemonte e la Lombardia austriaca, col pretesto d'inseguire gl'imperiali in fuga, Bonaparte invade anche i territori neutrali della Serenissima Repubblica di Venezia, che
aveva rifiutato le ripetute offerte di alleanza militare sia dell'uno che
dell'altro belligerante. Il 1° giugno 1796 Napoleone entra in Verona con le
micce accese ai cannoni, nell'ostilità generale. Subito i suoi si distinguono
in ruberie ed empietà, infischiandosene della neutralità veneta ed
impossessandosi delle fortezze e del relativo armamento.
Vinti gl'imperiali a Rivoli, nel marzo 1797 il piano
di sovvertimento della Serenissima si realizza: Bonaparte
spinge un pugno di cospiratori bergamaschi e bresciani ad un colpo di Stato, per staccare Bergamo e
Brescia dalla Serenissima, le quali si proclamano repubbliche indipendenti,
mentre sono in realtà soltanto dei fantocci protetti dalle baionette
d'Oltralpe. Crema è rivoluzionata a tradimento dagli stessi francesi. Tutta la
Lombardia veneta è in fiamme. Salò è contesa da giacobini
e abitanti delle vallate, incondizionatamente fedeli al leone di San Marco, i
quali, guidati da un eroico sacerdote, Don Andrea Filippi,
hanno alla fine la meglio e chiedono soccorso ai veronesi. I giacobini sono
però decisi non solo a riprendere Salò, ma anche a
marciare su Verona.
Per non essere a sua volta rivoluzionata con la violenza o col tradimento,
Verona fidelis dà subito prova della sua lealtà al
legittimo governo, chiedendo al Senato Veneto di potersi armare e difendere dai
giacobini bergamaschi e bresciani.
Quarantamila veronesi in armi, fra cui numerosi sono i contadini delle cernide, guidati dal giovane generale Antonio Maffei, si schierano a presidiare il confine col bresciano, liberano diversi abitati e giungono addirittura
ad assediare Brescia; la coccarda giallo-azzurra coi colori cittadini è il loro emblema. Il vescovo di Verona, Mons.
Gianandrea Avogadro,
modello di carità per tutti i combattenti controrivoluzionari, dà ordine di
fondere le argenterie delle chiese per la salvezza della patria. In città, tra
l'imbarazzo e l'apprensione dei francesi barricati nei castelli, è tutto un
pulire spade e lucidare moschetti, mentre compaiono ad ogni angolo di strada
cartelli e scritte di Viva San Marco! Tutte le porte sono sorvegliate a vista dalla
Guardia Nobile, una milizia volontaria appositamente costituita dalle autorità veronesi, a testimonianza di una sfiducia ormai
diffusa verso le forze armate nazionali, vincolate dal Senato al rispetto della
scellerata politica di neutralità disarmata. Così, pur di tenere fede a tale politica, la Repubblica, fedele alla propria neutralità, proibisce
ai veronesi qualsiasi atto di ostilità contro i francesi, i quali, da Milano,
da Mantova e da Ferrara-Padova si mettono intanto in
marcia contro l'esercito veneto-scaligero del Maffei e contro la città.
3 - Le Pasque Veronesi
Il 17 aprile 1797, lunedì dopo
Pasqua, le continue provocazioni francesi fanno sorgere i primi incidenti.
Quando, alle 17, durante i vespri, le batterie dei castelli sovrastanti
la città e che sono in mano nemica, iniziano a cannoneggiarla, i
veronesi esasperati insorgono come un sol uomo al grido di Viva San Marco!,
mentre le campane a martello avvisano anche il contado che la sollevazione
generale è iniziata.
Per nove giorni si combatte casa per casa; tutte le porte
sono liberate; assaltate le piazzeforti; inviate richieste d'aiuto a Venezia,
nel cui nome e nel cui interesse si battaglia e si muore e all'Impero, che però
proprio in quei giorni aveva siglato con Bonaparte i
preliminari di pace a Leoben. Il popolo,
inesperto nel maneggio dei cannoni, è soccorso da sei artiglieri imperiali,
liberati dalla prigionia di guerra. Si assedia Castelvecchio.
Trasportati i pezzi da fuoco sui colli di San Mattia e di San Leonardo, il
popolo cannoneggia dall'alto i rivoluzionari francesi asserragliati dentro Castel San Pietro e Castel San
Felice: altri duecento soldati imperiali combattono confusi nella mischia.
A capitanare i veronesi sono il Conte Francesco degli Emilei ed il Conte Augusto Verità. A migliaia i contadini si precipitano a soccorrere
Verona. Giungono per primi gli abitanti della Valpolicella,
che si offre di condurre tutti i suoi uomini; scendono i montanari dalla Lessinia; altre colonne di volontari in armi arrivano dalla
bassa e dall'est veronese.
Il popolo avanza palmo a palmo verso i forti, respinge
ogni tentativo di sortita da parte del nemico e tratta da traditore chiunque
voglia patteggiare con lui.
L'infido generale Beaupoil, che dai castelli sopra la
città, la batteva con le artiglierie, disceso a parlamentare, ben presto perde tutta la sua tracotanza, piagnucola e si vede salvata
la vita dal Marchese Giona, che lo sottrae al linciaggio della folla
esasperata. Gli ebrei del ghetto parteggiano senza esitazione per i nemici,
offrendo loro ricetto e armi. Dalla perquisizione del ghetto saltano fuori in effetti tre casse di esplosivo ed altro materiale
bellico, da essi occultato, per metterlo a disposizione dei rivoluzionari
francesi.
Castelvecchio alza bandiera bianca: viene ordinato il cessate il fuoco, ma i rivoluzionari
francesi, scorgendo che gli assedianti, imprudentemente, si erano troppo
avvicinati al castello, aperte le porte, ne approfittano per scaricare a
tradimento contro di loro un cannone a mitraglia, facendone strage. Una
pattuglia imperiale, che reca purtroppo la notizia dei preliminari di pace, è
accolta in delirio dalla popolazione che la crede invece un'avanguardia degl'Imperiali, prossimi a liberare la città dagli odiati
giacobini. A Pescantina l'eroica resistenza degli
abitanti blocca l'avanzata di una colonna francese, impedendole di traghettare
l'Adige, eroismo che diciannove pescantinesi, fra cui
donne e bambini, pagano con la vita, moschettati
o arsi vivi nelle loro case.
A Venezia, intanto, Emilei non ottiene gli aiuti
sperati e deve rientrare a mani vuote. Sul lago il generale Maffei,
attaccato dagli eserciti francesi provenienti da Milano, deve arretrare, fedele
alla consegna del Senato di non scontrarsi con essi,
ma a San Massimo e a Santa Lucia il 20 aprile s'ingaggia battaglia aperta; lo
scontro volge in un primo tempo a vantaggio dei soldati veneti ed è quella
l'ultima volta che la vittoria arride a San Marco, ma poi, sopraffatti dal
numero, essi sono costretti a ritirarsi tra le mura.
Alla fine di nove giorni di combattimenti i francesi contano a centinaia le
vittime lasciate sul campo in quella che è diventata, per l'esercito più
potente d'Europa, una cocente sconfitta militare. Poco più di un centinaio sono
i caduti veronesi. Circa 2.400 sono i prigionieri francesi catturati, dei quali
500 sono militari, altri 900 appartengono al personale civile dell'esercito
napoleonico assieme ai loro familiari: tutti erano stati condotti in Piazza dei
Signori, presso il palazzo dei rappresentanti veneti a Verona. Altri 1.000,
infine, degenti negli ospedali cittadini, sono ivi piantonati dagli stessi
veronesi per preservarli da ogni vendetta.
La sorte della città, privata di ogni soccorso
esterno, è tuttavia segnata; ma il popolo non vuole ancora arrendersi. In
provincia si susseguono le esecuzioni sommarie: in località Ca'
dei Capri, presso San Massimo, cade fucilato sotto il
piombo francese un giovanissimo sacerdote, Don Giuseppe Malenza,
che guidava un gruppo d'insorgenti. Dalle alture i giacobini veronesi,
traditori della loro patria, suonano fanfare militari per l'imminente crollo dell'aborrita Verona. Infine, assediata da cinque eserciti,
bombardata giorno e notte, tradita dai Provveditori Veneti che l'abbandonano
per ben due volte pur di non violare la chimerica neutralità, Verona capitola
il 25 aprile 1797, giorno di San Marco, dichiarando al tempo stesso, con un
gesto simbolico che sottolinea il disprezzo per
l'ignavia ed il tradimento dei veneziani e che la eleva a rango di capitale,
cessato il dominio veneto su di essa.
4 - La vendetta rivoluzionaria e la fine della Serenissima
Disarmato il popolo, resi
inservibili i cannoni, presi in ostaggio i sedici più
eminenti concittadini (fra cui il vescovo, l'Emilei,
Verità e tutte le più alte cariche) il 27 aprile i francesi rientrano in
Verona. Per prima cosa saccheggiano il Monte di Pietà, la banca dei poveri. Vengono imposte contribuzioni enormi, depredate le opere
d'arte, mentre una commissione militare è incaricata di far deportare alla
Guyana i cinquanta colpevoli principali dell'insurrezione. I traditori
veronesi, peggiori dei loro padroni, vorrebbero mutare nome a Verona
(ribattezzandola Egalitopoli o Città
dell'Eguaglianza) essendosi macchiata dell'onta di essersi ribellata a cotanti
liberatori e vorrebbero punire con una pubblica decapitazione sul corso, tutti
i capi famiglia protagonisti della gloriosa difesa della propria città e del
proprio legittimo ed amato governo. Sono gli stessi francesi, per non aggravare
la tensione, ad impedire la consumazione del massacro.
Ma la vendetta non si fa attendere: il 6 maggio 1797 sono arrestati nella notte
e mandati a morire tra il 16 maggio, l'8 e il 18 giugno, dopo un processo
politico farsa tenutosi a Palazzo Ridolfi Da Lisca,
attuale sede del Liceo Scientifico Messedaglia,
Giovanni Battista Malenza (fratello di Giuseppe) del
controspionaggio veneto, al quale i giacobini l'avevano da
tempo giurata e che era stato uno dei capi dell'insurrezione cittadina,
i Conti Emilei e Verità le cui case sono abbandonate
al saccheggio ed il vecchio frate cappuccino Luigi Maria
da Verona (al secolo Domenico Frangini) morto in
concetto di santità. Disgustato dall'empietà dei sanculotti,
in una lettera ad un suo confratello, intercettata, li aveva definiti peggiori
dei cannibali, perché questi ultimi avevano levate le mani solo contro gli
uomini, mentre i repubblicani francesi le avevano levate contro Dio.
Rifiutatosi di disconoscere la paternità della lettera o di farsi passare per
pazzo o per ubriaco, Padre Frangini affronta il
martirio, raggiante, al suono scordato dei tamburi. Anche i
popolani Pietro Sauro, Andrea Pomari, Stefano Lanzetta e Agostino Bianchi subiscono analoga sorte:
fucilati tutti a destra di Porta Nuova, guardandola dall'esterno.
Clamoroso anche il difetto di giurisdizione del tribunale militare
rivoluzionario: esso condanna a morte gl'insorgenti
veronesi, in forza di una legge criminale francese che punisce i reati commessi
contro l'esercito repubblicano in territori di Stati in guerra con la Francia,
la quale era ancora formalmente in pace con la neutrale Serenissima.
Non appena rioccupata la città, i rivoluzionari francesi decidono l'immediata
deportazione in massa in Francia, via Cisalpina e
quindi via Milano, dei 2.500 uomini della guarnigione veneta che aveva difeso la
città ed in particolare del Reggimento di Fanteria Treviso. Per accoglierli, la
patria dei liberatori dell'umanità istituisce il primo universo concentrazionario moderno.
Da quei campi di prigionia e di sterminio, tornarono meno della metà, dopo la
pace di Campoformio, rimpatriati, sul finire di quel
terribile 1797 e nei mesi successivi, attraverso la frontiera del Reno,
passando per i territori amici dell'Impero. La maggior parte di quei militi,
colpevoli soltanto di aver fatto il proprio dovere, morì di fame o di stenti in
Francia; altri ancora sulle strade del Brennero o del
Tarvisio, sulla via di casa.
Nei mesi successivi giacobini veronesi e rivoluzionari transalpini si sfogano
ad elevare alberi della libertà e piramidi, a scoronare
e depredare in Cattedrale la venerata immagine della Madonna del Popolo (alla
quale viene negato il titolo troppo aristocratico di
Regina, declassandola a cittadina Madonna) e ad altri sacrilegi, a lanciare
spropositi dalla sala di pubblica istruzione, proponendo ad esempio di bruciare
tutti i confessionali, di far mitragliare in Stradone San Fermo gli
ecclesiastici o di distruggere le Arche Scaligere, perché innalzate sotto un
regime anti-democratico. I leoni di San Marco vengono abbattuti, gli stemmi nobiliari e i rispettivi titoli proibiti, sotto pena di
pesanti multe per chi soltanto osi pronunciarli. Addirittura, per giustificarsi
di aver aggredito una città ed una Repubblica neutrale ed in pace con loro,
rivoluzionari transalpini e giacobini veronesi rovesciano le loro
responsabilità sulle vittime, inventando la favola del massacro di Verona e
facendo passare l'insurrezione di una città stanca della tirannia dei suoi pretesi liberatori, come un eccidio di massa,
programmato e freddamente realizzato, di soldati francesi malati o feriti. A
questa menzogna sono ispirate quasi tutte le stampe dell'epoca relative alla sollevazione di Verona.
Proclamate le elezioni, i giacobini, giunti al potere solo
grazie alla forza francese d'occupazione, speravano di vedere
legittimata la loro usurpazione. Quale delusione, quale rabbiosa reazione
quando si vedono sconfitti in quasi tutti i collegi dagli appartenenti
all'antica classe nobiliare! Naturalmente, il verdetto popolare non viene rispettato dai democratizzatori;
il generale francese, al quale spetta l'ultima parola, estromette a forza gran
parte degli eletti, giudicati troppo legati all'antico regime e ripesca i
perdenti. Il vescovo viene infine di nuovo arrestato: la prima volta, non
avendo voluto benedire l'albero della libertà, aveva scampato per un solo voto il plotone di esecuzione; adesso, pochi giorni prima che i
rivoluzionari d'Oltralpe evacuino definitivamente la città, questi lo vogliono
costringere con la prigione a concedere il divorzio ad un ufficiale francese.
Mentre Verona geme sotto l'arrogante sferza della Rivoluzione, le autorità
veneziane consumano l'ultimo tradimento della Repubblica, rinunziando a
difendersi, pur non avendo Bonaparte alcun naviglio
per conquistare Venezia, alla quale aveva frattanto
dichiarato guerra. Il 12 maggio 1797 lo stesso Doge Ludovico Manin
propone al Maggior Consiglio, per le cui deliberazioni mancava quel giorno oltre tutto il numero legale, la devoluzione del potere al popolo e
la democratizzazione rivoluzionaria. Le uniche autorità che si erano condotte
con onore, gl'Inquisitori di Stato e l'eroico capitano
Domenico Pizzamano, il quale, obbedendo agli ordini,
aveva bombardato e costretto alla resa un vascello nemico insinuatosi in
laguna, sono tratti in arresto, come chiesto da Bonaparte
e dai suoi. Per ironia della sorte, quella nave
francese si chiamava Il liberatore d'Italia. Non soltanto, ma un tumulto
popolare antifrancese e in difesa della Serenissima che scoppia a Rialto, è
soffocato nel sangue dalle stesse autorità venete.
Dopo mille anni di splendore e d'incontrastato dominio del leone alato di San
Marco, durante i quali il glorioso gonfalone della Serenissima era sventolato
su tutti i mari, temuto e rispettato perfino dal Turco, l'antica città dei Dogi
è consegnata ad un nugolo di municipalisti intriganti
e parolai, che piantano l'albero della libertà in San Marco, minacciano la pena
di morte a chiunque osi gridare Viva San Marco! e che
usurperanno il potere fino all'ingresso, trionfale, degl'imperiali in città,
nel gennaio 1798.
5 - La Restaurazione
Dopo diciotto mesi d'incessanti
preghiere e di candele accese giorno e notte innanzi all'altare della Madonna
del Popolo, i veronesi sono esauditi e ottengono la grazia di essere liberati
dalla barbarie rivoluzionaria. Il 21 gennaio 1798, esattamente nel quinto
anniversario del martirio di Luigi XVI, Re Cristianissimo di Francia, le
divisioni imperiali comandate dal Barone Wilhelm von Kerpen, da Porta Nuova
entrano in formazione di parata in città, accolte da una popolazione in delirio.
Nel Te Deum in Cattedrale il vescovo invita
magnanimamente ad evitare le vendette, mentre il teatro resta aperto e tutta la
città è pavesata a festa ed illuminata in segno di
giubilo per quella notte memorabile.
Verona non dimentica i suoi eroi. I corpi senza vita dei tre
sfortunati difensori della città (Emilei, Verità e Malenza) come degli altri suppliziati, che erano stati
sepolti frettolosamente in una fossa comune nel camposanto della Santissima
Trinità, il 6 febbraio 1798 sono dissotterrati ed inumati nelle rispettive
tombe di famiglia. E, per decreto del Consiglio Nobiliare cittadino,
nella chiesa di San Sebastiano, di giuspatronato della città, il 23 settembre 1799 si tiene una solennissima cerimonia, a cui partecipano tutte le autorità cittadine, vestite
a lutto. Per l'occasione viene eretta un'imponente
macchina funebre, fregiata di numerose ed eleganti incisioni che ricordano le
principali gesta di quei martiri.
Con l'arrivo delle truppe cesaree, anche l'impavido cappuccino Padre Luigi Maria da Verona, riceve degna sepoltura. Il suo corpo viene estratto incorrotto (se si eccettua la testa, dove era
stato offeso dai colpi mortali) con grande sorpresa di tutti, dalla nuda terra
nella quale giaceva già da sette mesi. È tumulato nella chiesa dei cappuccini,
la quale per ordine di Bonaparte viene in seguito
soppressa, abbandonata dai religiosi e trasformata in
caserma. Di Padre Luigi Maria nessuno si ricorderà
più, fino al 29 marzo 1897, quando, in occasione del primo centenario delle
Pasque Veronesi il dotto sacerdote Antonio Pighi ne
recupera i resti mortali, che, accompagnati da un numeroso corteo, sono deposti
nel Cimitero Monumentale, nell'edicola dei Cappuccini. Era
l'8 giugno 1897 e quel giorno correvano cento anni esatti dal suo
supplizio.
PASQUE VERONESI: LE MEMORIE DELL'EPOCA
"Per noi finì dunque nel
giorno sacro al protettore della Repubblica Veneta, San Marco, la nostra
sudditanza a questa moribonda Repubblica, tributandole nell'atto estremo di
nostra irreparabile caduta il più cruento sacrifizio
che possa mai offrire una suddita fede sull'altar
della sovranità. Bell'esempio agli altri popoli
d'Italia, anzi a molti altri d'Europa, che, trascinati dal furor di fanatici
banditori d'un governo ripugnante alle divine ed umane leggi, come noi [...] precipitati in un baratro
d'infiniti guai e miserie, non ci avranno comune quel bel titolo di fedelissimo
popolo da remoti tempi acquistatoci". Girolamo De' Medici, Vicende sofferte dalla provincia veronese
sul finire del secolo XVIII e nel cominciamento del
XIX, ms. 1360, presso la Biblioteca Civica di Verona, II, c. 288.
Per saperne di più:
(1) Francesco
Mario Agnoli, Le Pasque Veronesi, Il Cerchio
Iniziative Editoriali, Rimini, 1998 pp. 300 circa. Euro 20. Il volume, già richiedibile
all'editore (Il Cerchio Iniziative Editoriale - Via dell'Allodola, 8 - 47900
RIMINI - 0541/791570-775977 - Fax 799173 - E-mail:
(2) Francesco Mario Agnoli, I processi
delle Pasque Veronesi. Gl'insorti
veronesi davanti al tribunale militare rivoluzionario francese (maggio
1797-gennaio 1798), Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 2002, pp. 250 circa.
Euro 16,50. Richiedibile come sopra. In appendice le sentenze e le carte
processuali inedite, ritrovate a Parigi.
È poi prevista una riedizione
accresciuta del primo tomo del volume Le Pasque Veronesi, completata da un
secondo tomo, con un saggio di Francesco Mario Agnoli
dedicato al culto di Napoleone e per il resto interamente iconografico: il
testo aduna quasi mille immagini originali che costituiscono una documentazione
straordinaria, di prima mano e in larga misura inedita, delle Insorgenze, delle
Pasque Veronesi in ispecie, della caduta della
Serenissima e della satira rivoluzionaria e controrivoluzionaria, con speciale
menzione iconografica del ridicolo culto della personalità di
Bonaparte. Purtroppo questa riedizione con il volume
iconografico dedicato all'insorgenza veronese non ha trovato finora attenzione
né presso le istituzioni cittadine infette di spirito rivoluzionario, né presso
l'assessorato alla cultura e all'identità veneta della Regione.
È altresì prevista la pubblicazione
di una collana dei principali testi (diari e memoriali
dell'epoca) relativi alle Pasque Veronesi, che giacciono impubblicati
e a rischio di andare distrutti per sempre nei fondi di biblioteche o
collezioni private. Anche per salvare tali opere,
l'appello alle pubbliche Istituzioni è doveroso.